Tra spazi, luci e colori il teatro di Fabiana

Continua il ‘viaggio’ di ‘Fatto a Mano’ nel mondo dell’artigianato. In particolare, nella cartolina, questa settimana, si vuole esplorare quella ‘realtà di mezzo’, tra il vero e l’apparente, che coinvolge tutti gli artefici del teatro.
Nostra interlocutrice è, infatti, una scenografa romana, che ha ambientate alcune tra le più apprezzate produzioni teatrali degli ultimi anni nella capitale e non solo.

Il suo nome è Fabiana Di Marco, la sua storia, tutta da raccontare!

Buongiorno Fabiana, iniziamo dal principio. E’ sempre stata la tua aspirazione diventare scenografa? Immagino che alla base sia sempre indispensabile un talento personale, ma non solo, anche una professionale formazione tecnica.

Alle Scuole medie, la nonna di una mia compagna di classe ci portava a vedere gli spettacoli al Teatro Giulio Cesare (ora cinema), e lì è iniziato tutto. Al Liceo Artistico, ho avuto un professore burbero di Figura e Ornato che ha dedicato il suo tempo a insegnarmi come leggere un testo e come progettare una scenografia. Allora ho capito di voler diventare una scenografa, ma non sapevo come. È stata mia sorella a credere in me e a sostenermi. Mi ha iscritta a un corso privato di scenografia, dove ho avuto la fortuna di avere insegnanti eccezionali e nel pieno della loro attività. Mi hanno fatto respirare il teatro, vivere gli allestimenti, lasciato fare apprendistato ed errori. Tra loro c’era Lisa Ferlazzo Natoli, insegnante e regista meravigliosa. Sono stata fortunata! 

La tua esperienza lavorativa ha subito avuto inizio come assistente scenografa

Finito il primo anno di Accademia, ho trovato lavoro come assistente scenografa per Cristina Gaetano, Francesco Scandale e Francesco Zito, e dopo poco ho iniziato a lavorare come assistente per Alessandro Chiti, con il quale ho collaborato e ho imparato tantissimo per circa dodici anni.

Chi potresti definire il tuo mentore tra i registi o scenografi con cui hai collaborato?

Gli anni passati come assistente di Alessandro Chiti sono la risposta. Non sarebbe stato possibile lavorare così a lungo con chi non stimi o non trovi geniale. Fra le prime scene che ho firmato, non ce n’è stata una che non sia stata da lui supervisionata.

Comunque tutti i registi con cui ho lavorato sono stati dei mentori. Per alcuni è stato subito facile innamorarsi del progetto e delle loro visioni del testo, con altri l’amore per il loro teatro è sbocciato durante l’allestimento, mentre con pochi a lavoro finito. Ognuno ha il suo mondo interiore da voler portare in scena e il mio compito è credere, comprendere e rendere le loro visioni fisicamente praticabili. E in loro, nella loro intuizione io credo. Giancarlo Sepe è un fiume in piena di visioni e di immagini. Massimiliano Farau porta la sua raffinatezza e la sua conoscenza del testo. Daniele Salvo ha una visione noir che mi conquista. Adoro Marco Carniti per il suo spregiudicato coraggio e gusto estetico. Francesco Giuffré è poetico. Lisa Ferlazzo Natoli è meravigliosamente “teatro”… E ancora: Giancarlo Fares, Guglielmo Ferro e Melania Giglio che oltre ad essere una interprete a tutto tondo, scrive dei testi teatrali intensamente concisi e diretti, dirige e interpreta con tanta forza e passione.

Tra le varie forme di teatro dici di prediligere la prosa.

Forse perché è stato il mio primo grande amore. Perché ha mille volti, aspetti, spazi e luoghi. Mi affascinano i testi, gli attori che diventano personaggi, le luci che sussurrano, parlano o gridano e diventano ruoli anch’esse. Mi piace perché nel teatro di Prosa ci si conosce tutti. Durante l’allestimento ci si confronta con il macchinista, il light designer, il fonico, il reparto sartoria… Ci si conosce per nome, e per un po’ si convive, almeno fino al debutto. Insomma, fai parte di una squadra che ha nomi e volti.

Se ben calibrata, una collaborazione tra scenografo, costumista e regista porta a risultati straordinari, anche quando i soggetti sono un po’ ‘borderline’ (basti pensare a teste danzanti e secchiate di sangue).

Il teatro è una macchina che tutti coinvolge. E se il progetto è chiaro, l’idea fondata e le maestranze sono competenti, è un successo per tutti. Se ciò non avviene (e questo può dipendere da diversi fattori), si ritenta più competenti di prima. Il teatro è gerarchia. Il regista è al vertice della piramide, ma sotto di lui ci sono tutti, e tutti lavorano con un unico obiettivo, aggiungendo la loro professionalità affinché avvenga la magia. Ai miei studenti spesso ricordo di non pensare alla scenografia come allo Spettacolo fatto e finito. Il nostro lavoro è fatto bene solo se coesiste con gli altri settori e se non tradisce le intenzioni iniziali. Deve dare, non sottrarre.

Tu hai avuto l’opportunità di conoscere e a lungo collaborare con Gigi Proietti nel suo Globe Theatre. A te la parola, a te il ricordo, a quanto di lui porti con te…

Con me porto tutto quello che ho potuto prendere dalla persona più geniale e generosa. E ancora ne vorrei.

Ho lavorato per la sua produzione, Politeama S.r.l., per diversi anni. Ho avuto la fortuna di conoscere uno spazio teatrale unico e meraviglioso immerso dentro Villa Borghese. Un luogo speciale perché lo era per lui. Lo ha amato, difeso, sostenuto. Non era mai sazio di guardare lo spazio dove il legno color noce scuro e il bianco la fanno da padroni, dove il segno è presente, senza esclamare “Certo, è bello forte!”. Per i registi che hanno lavorato al Globe il compito non è stato sempre facile. Come fai a portare in scena testi shakespeariani senza nascondere il Globe? E’ venuto a tutti, talvolta, il desiderio di vederlo “diverso”. Il mio lavoro di scenografa al Globe, l’ho sempre chiamato “fantasma”. Ho apportato modifiche e cercato di venire incontro alle esigenze dei registi senza rinnegarlo. Ci ho provato usando il ferro, o piccoli interventi segnanti. Ad esempio, le scene per ‘Romeo & Giulietta’ con la regia di Gigi erano invisibili, ma c’erano. Erano piccole modifiche che sono poi risultate funzionali e sono divenute parti fisse per tutti gli spettacoli a seguire. All’epoca ne ero dispiaciuta. Ero ancora giovane e volevo far vedere cosa sapevo fare. Lui mi ha insegnato ad amare il Globe e a vederlo come lo vedeva lui, a rispettarlo. E spero di non averlo deluso. 

A Gigi, al tuo papà fabbro e a tutti coloro che si sono ‘persi’ nel corso del 2020 hai dedicato dei cuori realizzati in stoffe colorate…

Non li ho dedicati a loro, li ho dedicati a me. Nella difficoltà di elaborare il lutto in questo anno complicato, dove la condivisione, l’abbraccio, l’aiuto dell’altro sono “bloccati”, tento delle strade alternative che permettono in primis a me di ricordare, di piangere e di ridere nel ricordo. Mi permettono di dare libero arbitrio alla mia creatività e di offrire un cuore a chi come me vuole portarlo con sé e raccontarsi. Non ha intenzione di essere un segno triste, tutt’altro! Nei cuori che sto realizzando ci possono essere frasi, ricordi, nomi, emozioni. L’idea è di renderli personalizzati. Per il momento sto personalizzando i miei.

Grazie alla tua preziosa collaboratrice Giovanna Stinga, che ti aiuta anche quando nelle scenografie sono necessari interventi in tessuto, hai creato delle mascherine d’arte personalizzabili per proteggersi dalla pandemia senza rinunciare alla propria individualità.

Quando ho capito che delle mascherine per un po’ non avremmo potuto fare a meno, ho pensato di renderle uniche. Ho imparato a cucire con le lezioni a distanza di Giovanna, in marzo. Ho svuotato cassetti e porta biancherie per le stoffe. Mia zia mi ha regalato del prezioso lino disegnato da Enzo Russo, uno stilista degli anni settanta per il quale lavorava. Ho imparato a cucire e a ricamare, e poi le ho dipinte. Le ultime che ho realizzate, citando la mia psicologa Sara Eba di Vaio, sono “mascherine delle emozioni”. Ognuno di noi sta trovando difficile farsi conoscere. Le mascherine possono essere un mezzo per comunicare quello che solo gli occhi non riescono a fare. Possono aiutare anche a far ridere, come l’ultima che ho dedicato a Giovanna con la scritta CNOFEUSD (confused), dopo che, dimenticata sul marciapiede la valigia appena scaricata dalla macchina, non l’aveva più ritrovata.

Si dice che con il lockdown il mondo del teatro si sia fermato. In realtà vi è un gran fermento, in attesa della riapertura. Molti teatri si sono impegnati per accogliere il pubblico in sicurezza e molte produzioni sono andate avanti…

Si è fermato il teatro, ma non i teatranti. Si è cercato di trovare e provare espedienti nuovi. Abbiamo manifestato e molti hanno investito per rendere il proprio teatro sicuro, ma non ci è stato dato modo di “aprire”. E mi dispiace. Avremmo potuto far appassionare l’Italia se avessero lasciato aperti solo teatri, cinema e musei dopo le 18. Sarebbe stato un sogno: ‘Se vuoi uscire, puoi andare solo a Teatro!’.

Il Globe Theatre di Villa Borghese con la direzione artistica di Gigi Proietti, grazie ai grandi sforzi della Politeama, alla volontà di Gigi, Carlotta, Susanna e Alessandro Fioroni e con il sostegno e la gioia di noi altri, ha fatto programmazione da fine luglio a ottobre 2020, proponendo spettacoli nuovi e di repertorio, tutti concepiti o rivisti in termini di sicurezza. E sono andati benissimo! Hanno dato tanto al pubblico che ha dato tanto a noi, perché per lui noi siamo.

Tu in particolare hai lavorato fino a dicembre…

Ho seguito fino alla “generale” lo spettacolo “Il Malato Immaginario” di Molière, con la regia di Guglielmo Ferro e l’interpretazione di Emilio Solfrizzi, che era previsto in cartellone al Teatro Quirino per il periodo natalizio. Grazie a Rosario Coppolino, il produttore, abbiamo fatto due settimane di prove al Teatro Quirino e la prova generale il 13 dicembre. La produzione ci ha forniti di tutti gli strumenti necessari per la sicurezza, compresi i tamponi rapidi. Ma… i puntini di sospensione sono dedicati a questo strano, allestimento che, dopo aver fatto la prova con scene, costumi, luci, fonica, memoria per gli attori, è stato impacchettato in attesa di poter essere presentato al pubblico.

Per te un’ultima domanda di repertorio: hai un desiderio da realizzare? Una nuova commedia da ambientare, un regista con cui lavorare?

Il mio più grande desiderio è che questo meraviglioso mondo del teatro italiano, che respiro e vivo da 19 anni, torni ad abbagliare e a far sognare ancora, e ancora, e ancora. Dal vivo, con gli imprevisti dell’ultimo minuto. E avrei voluto tanto fare le scene di Amleto per la regia di Gigi Proietti.

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